IL RE DI BROZZI

Nei suoi aspetti più popolareschi e allegramente chiassosi, la festa medievale di Brozzi rievoca e riecheggia, seppure in modo sfumato, l'antica tradizione fiorentina delle Potenze o Signorie Festeggianti, facinorose compagnie goliardiche composte da popolani che tra Trecento e Cinquecento, a Firenze e nel Contado, organizzavano grottesche parate in alta uniforme, feste, convitti e banchetti, ma anche e soprattutto furibonde zuffe e sassaiole. Uno di questi raggruppamenti di povera gente era attivo anche nel territorio brozzese, ed il capo della locale congregazione era detto per l'appunto il Re di Brozzi.
Nel 2014, in occasione dell'ottava edizione della festa medievale, provammo a rendere più evidente il legame tra la nostra rievocazione storica e quell'antica tradizione, riconducendo una cospicua parte delle iniziative in programma a tale filo conduttore. Nel tentativo di far rivivere quell'esperienza storica, infatti, allestimmo vari intrattenimenti a tema, ed in particolare lo spettacolo teatrale “Bucacenci alla corte del Duca d’Atene”, rievocante la fondazione delle Potenze Festeggianti fiorentine da parte del Duca d'Atene. In aggiunta a ciò, appendemmo alcuni drappi illustrativi riferiti a tale evento storico ed un narratore espose ai visitatori aneddoti e peculiarità sull'argomento. Infine, a sera, al termine dei festeggiamenti, si svolse un turbolento e movimentato corteo capitanato dalla grottesca corte regale brozzese.
Inoltre, sempre in vista dell'ottava edizione della manifestazione, per approfondire questa interessante ma poco conosciuta vicenda, peculiare della nostra storia locale, e renderne partecipi sia i Brozzesi (che in massima parte la ignoravano) sia i visitatori, includemmo un breve saggio esplicativo nell'opuscolo promozionale della festa del 13 Settembre 2014 (scaricabile in formato PDF da qui), che riportiamo qui di seguito in una versione leggermente meno sintetica di quella contenuta nel suddetto libriccino.
Buona lettura.

C'era una volta il Re di Brozzi...

Ebbene sì: pochi ne sono a conoscenza, ma un tempo nel borgo di Brozzi c’era davvero un Re con tutta la sua corte. Certo, non si trattava di un vero e proprio monarca…
Il Regno di Brozzi fu infatti una delle cosiddette Potenze o Signorie Festeggianti che animarono, con alterne fortune, la vita degli abitanti di Firenze e del suo contado nel tardo medioevo ed in epoca rinascimentale, dal XIV al XVII secolo.

Ma cos’erano le Potenze Festeggianti fiorentine? In buona sostanza si trattava di particolarissimi raggruppamenti spontanei di popolani d’umilissima condizione residenti in un medesimo rione, spesso accomunati dalla professione svolta e dall'Arte di appartenenza (battilana, tintori, scardassieri, tessitori, ecc…), aventi natura essenzialmente laica e goliardica, che si adoperavano nell’organizzare festeggiamenti, cortei, balli e danze, rappresentazioni, pranzi e cene in occasione delle principali ricorrenze cittadine o di particolari avvenimenti legati alla vita politica della città.
Molto spesso si attivavano per la festa del Santo Patrono di Firenze, San Giovanni Battista, da sempre il giorno di massime allegrezze in città, i cui preparativi iniziavano mesi prima, e più raramente per il Martedì Grasso, Calendimaggio, Natale e Pasqua, nonché per la festa del Santo protettore della parrocchia del rione o dell’Arte cui apparteneva la maggior parte dei membri. Occasioni di festa erano inoltre la commemorazione di una vittoria militare dell’esercito fiorentino, il matrimonio di un Principe, la nascita dell’erede al trono, l’arrivo in città di un importante dignitario straniero.
In generale comunque l’attività delle Potenze non fu mai regolare e costante, presentando grande variabilità: non tutte festeggiavano le stesse ricorrenze, ed alcune passavano anche degli anni senza mostrarsi.

l'Emblema di "Re Piccinino"

Queste Potenze costituivano una goliardica parodia in senso grottesco degli aspetti esteriori dei ceti dominanti dell’epoca: il nome di ciascuna di esse era infatti contraddistinto da una ampollosa dignità nobiliare (quale Regno, Impero, Signoria o Ducato) associata ad un fantasioso ed altisonante appellativo talora riferito al lavoro svolto dai membri oppure al luogo di residenza.
Parimenti, al capo di ogni brigata festeggiante, eletto dai componenti della compagnia con cadenza non sempre prefissata, veniva attribuito il corrispondente titolo di Re, Imperatore, Signore, Duca e così via. La scelta degli elettori in genere privilegiava non le persone più civili, bensì quelle più rissose e prepotenti, grette ed ignoranti, oppure più buffe d’aspetto, magari con vistosi difetti o menomazioni.
Assisteva il Signore della Potenza una corte di ufficiali e dignitari organizzata in una gerarchia che anche nelle denominazioni delle cariche scimmiottava quella delle corti nobiliari: i Baroni camminavano al fianco del Signore nelle sfilate, i Consiglieri lo aiutavano nel prendere decisioni, i Provveditori si occupavano delle forniture, il Camarlingo curava l’amministrazione delle finanze, i Capitani attendevano alle questioni militari e gli Alfieri erano responsabili dell’insegna.
Ogni Potenza era contraddistinta inoltre da un emblema allusivo del proprio nome o titolo nobiliare, del luogo di residenza o del mestiere praticato dai componenti, riportato sullo stendardo, e da un motto in latino, proprio come le famiglie nobili dell’epoca.

Nell’ambito dei festeggiamenti, i dignitari di queste Signorie, che con grande convinzione interpretavano il proprio ruolo, osservavano un ampolloso cerimoniale e, agghindati in modo eccessivamente pomposo, si esibivano alla testa di parate di sapore militare composte da gente vestita tutta con la medesima divisa, accompagnati dal suono di tamburi ed altri strumenti, esibendo lo stendardo recante l’emblema della Potenza e portando armi finte e spuntate, di legno inargentato. Spesso le divise e le armi contraffatte non erano perfette e ad alcuni uomini mancavano determinati elementi, per cui l’aspetto generale doveva sembrare grottesco.
Tra le attività svolte da queste congreghe figurava inoltre l’organizzazione di convitti, pranzi e cene, danze e sollazzi. In occasione delle processioni, allestivano per le strade del proprio rione, lungo il percorso del corteo, magnifici apparati scenografici, tra cui palchi e tribune ornati con addobbi variopinti e fregi dorati, coperti da ricchi baldacchini, dove il Signore assisteva allo svolgersi della manifestazione in compagnia dei suoi cortigiani, ufficiali e consiglieri, tutti vestiti con il massimo dello sfarzo.

il Tabernacolo delle Fonticine

In occasione delle ricorrenze religiose, le Potenze si impegnavano talvolta in iniziative benefiche o nella realizzazione di tabernacoli e opere d’arte. Fornisce testimonianza di ciò il cosiddetto “Tabernacolo delle Fonticine“ in Via Nazionale, commissionato a Giovanni della Robbia dalla Signoria di Biliemme.

Tuttavia l’attività più caratteristica, il momento culminante e forse più atteso di ogni manifestazione delle Potenze erano le cosiddette “armaggerie”, zuffe organizzate tra le Signorie, raggruppate in due opposti schieramenti o tutte contro tutte: turpi scontri a viso aperto per le strade cittadine a pugni, sassi, bastoni ed armi finte fra i membri delle opposte brigate, inebriati dal vino trangugiato e protetti solamente da elmetti e corpetti di cartone e stoppa. Questi violentissimi pestaggi e sassaiole, che talvolta perduravano per giorni interi, gettavano la città in un clima di efferata brutalità e lasciavano sul campo numerosi morti e decine di feriti gravi.
Particolarmente cruenti furono gli scontri avvenuti in occasione dei festeggiamenti per la nascita dell’erede maschio del Granduca Francesco I nel 1577 e della festa organizzata in onore del matrimonio di Eleonora de’ Medici nel 1584.

Ogni Potenza aveva una forte connotazione rionale e un ben definito ambito territoriale urbano entro il quale esercitava la propria signoria, consistente nell’esigere un tributo in denaro o in natura per organizzare i festeggiamenti, inteso non come un libero contributo, bensì come una tassa dovuta.
Per finanziarsi, queste brigate ricorrevano anche a metodi spicci e brutali, se non protomafiosi, estorcendo denaro ai passanti ed ai viandanti e taglieggiando i bottegai e gli artigiani del rione, sotto la minaccia di danneggiare la bottega in caso di rifiuto.
La questione dei confini del territorio era molto sentita, in quanto questi determinavano di quali Potenze erano suddite le più ricche famiglie fiorentine, le cui generose sovvenzioni ne costituivano una delle principali fonti di finanziamento. Nascevano sovente disordini, dispute, risse e tafferugli tra Potenze limitrofe causate dallo sconfinamento degli uomini di una compagnia nel territorio di un’altra al fine di assicurarsi le elargizioni dei facoltosi cittadini che risiedevano presso il confine tra i due territori. Nei confronti dei confinanti le Potenze conducevano una continua azione di stampo camorristico fatta di intimidazioni, ricatti, ruberie e scontri fisici.

Occorrevano davvero molte risorse per organizzare tutte le attività svolte da queste compagnie, al punto che alcuni capi brigata, inebriati dall’effimero potere, non di rado rispondevano con il proprio denaro, arrivando a rovinarsi.

l'Emblema di "Città Rossa"

La nascita ufficiale di queste congregazioni, la cui attività secondo alcuni storici deriva dai Saturnali d’epoca romana e fu presente in città sin dalla fine del IV secolo, risale alla Pasqua del 1343, allorché per volontà di Gualtieri VI di Brienne, Duca d’Atene, tiranno di Firenze, furono costituite sei brigate di festaioli, ognuna con la sua propria insegna e divisa, tra cui in particolare la Potenza della Città Rossa da Sant’Ambrogio e la Potenza di San Giorgio, le quali, rivendicando entrambe la dignità di Impero, si azzuffarono ferocemente tra di loro. Così facendo il Duca probabilmente intendeva guadagnarsi il favore del popolino, mostrandosi più attento alle istanze degli artieri rispetto al tradizionale atteggiamento della borghesia cittadina, ed assopirne nei festeggiamenti l’impeto ribelle e rivoltoso.
Le Potenze festeggianti si formarono nell’ambiente povero e oppresso dei sottoposti delle Arti, uomini con pochi diritti e tanta miseria, i quali vedevano nei bagliori delle feste cittadine ed in queste compagnie la possibilità di scrollarsi di dosso per pochi giorni la fatica dell’esistenza, rifugiandosi in un’effimera e teatrale realtà alternativa, ironica pantomima delle classi nobiliari, nonché la possibilità di riunirsi ed associarsi senza limitazioni di sorta, cosa al tempo vietata agli umili artieri.

Con il passare del tempo, alle prime sei Potenze se ne affiancarono molte altre: negli annali si arrivano a contare oltre settanta di questi raggruppamenti, il cui numero tuttavia fu altamente variabile nelle diverse epoche. Infatti mentre alcune Potenze hanno avuto un’esistenza secolare ed un’attività abbastanza regolare, molte altre hanno avuto natura episodica: sono nate e scomparse piuttosto rapidamente, limitandosi a qualche sporadica occasionale apparizione.

Durante la seconda metà del XIV secolo, per tutto il XV secolo e nel secondo periodo repubblicano l’attività delle Potenze festeggianti si ridusse al minimo, probabilmente anche a causa in un primo momento della peste, delle carestie e dei tumulti della fine del Trecento e successivamente delle austere politiche ispirate da Savonarola, e conobbe un momento di nuovo fulgore soltanto con il ritorno in città dei Medici, nel 1512, grazie al sostegno dei principi fiorentini; in quel periodo memorabili furono i festeggiamenti nel 1518 per il matrimonio di Lorenzo de’ Medici, Duca d’Urbino, con Maddalena de la Tour d'Auvergne, e nel 1523 per l’elezione al soglio pontificio di Giulio de’ Medici con il nome di Clemente VII, che videro la partecipazione di tutte le Potenze cittadine.

Dopo le miserie dell’assedio di Firenze e la definitiva fine della Repubblica, Alessandro de’ Medici, eletto Duca di Firenze, diede un grande impulso alla tradizione delle Potenze, fornendo loro protezione, riconoscimenti ufficiali e munifici finanziamenti e sovvenzioni, e così fecero anche i primi Granduchi, Cosimo I e i suoi figli Francesco e Ferdinando, tanto che quel periodo costituì senz’altro il momento di massimo splendore di queste brigate di festaioli. Si ricordano in particolare le feste per il Calendimaggio del 1532, le allegrezze per il San Giovanni del 1545, i festeggiamenti per il matrimonio tra il principe Francesco de’ Medici e Giovanna d’Austria nel 1565 e per la nascita del loro erede maschio Filippo nel 1577, e quelli per il matrimonio della principessa Eleonora de’ Medici con Don Vincenzo Gonzaga, Duca di Mantova, nel 1584.

I principi medicei, in ossequio all’antico ma sempre valido postulato del “panem et circenses”, intendevano in questo modo consolidare il proprio potere sulla città, distraendo il popolo minuto dalle recriminazioni per la scomparsa della Repubblica e dalle questioni politiche ed economiche, scongiurandone i propositi di ribellione e facendo sfogare in una direzione inoffensiva per l’ordine granducale l’aggressività delle classi popolari.

Nel corso del XVI secolo, in occasione di lieti eventi come la nascita dell’erede del Granduca o un rilevante matrimonio nella dinastia medicea, queste brigate si esibivano in parate dirette al palazzo del signore della città per omaggiarlo, ricevendone consistenti elargizioni (denari, barili di vino, castroni e vitelle, zanate di pane) secondo il grado e la rilevanza di ognuna, al fine d’organizzare feste in suo onore.

Durante il periodo granducale i Signori delle Potenze godevano, oltre che del consenso popolare, anche di una notevole impunità, in considerazione della protezione da parte del potere politico e militare, tanto da potersi permettere una burlesca confidenza con le autorità; ne è un esempio l’abitudine di rivolgersi al Granduca con lettere in stile diplomatico, proprio come se costoro si ritenessero importanti dignitari di paesi stranieri.

Anche molti nobili e borghesi della città, che in base al luogo di residenza erano “sudditi” di questa o di quella Potenza, sovvenzionavano munificamente tali associazioni, soprattutto in occasione dei festeggiamenti indetti dal Granduca, in quanto vi intravedevano una possibilità di mettersi in buona luce ai suoi occhi, contribuendo a rendere più splendida possibile l’esibizione sotto il palazzo del principe della propria Signoria di appartenenza.

L'atteggiamento del governo cittadino oscillò spesso tra il desiderio di arginare tale fenomeno, assai temuto per i frequenti violenti disordini cui dava origine e soprattutto per il suo carattere potenzialmente eversivo, anche in considerazione della rilevante influenza delle Potenze e del rischio che si potessero coalizzare contro l’ordine costituito, e la volontà di utilizzarlo come strumento per incanalare il consenso popolare e distrarre la plebe dal clima politico e dalle faccende inerenti il governo della città. Lo stesso Duca Alessandro prima le proibì e poi ne incoraggiò lo sviluppo, rendendosi conto di quanto fosse più agevole governare un popolo allegro.

Nel 1545 il Duca Cosimo I iniziò a disciplinare il comportamento di queste brigate, stabilì con più rigore i confini dei rispettivi territori ed affidò ai Capitani di Parte Guelfa la giurisdizione su di esse.
Inoltre, nel corso del Cinquecento, in occasione dei festeggiamenti per San Giovanni Battista, la Magistratura degli Otto di Pratica eleggeva una deputazione che sovrintendeva alle attività delle Potenze e per ognuna delle Signorie più importanti delegava un cittadino a vigilare sul loro comportamento.

Nel 1577 i comportamenti violenti e minacciosi delle Potenze, i disordini e i conflitti tra di loro e le estorsioni ai danni di passanti ed artigiani indussero il Granduca Francesco I a regolamentarne l’attività mediante l’emissione di un bando, poi reiterato nel 1588 dato il suo infruttuoso esito, che stabiliva in particolare l’obbligo di richiedere il diritto di passo per transitare dalla residenza altrui, il divieto di far tumulti e di adoperare sassi o armi di qualsiasi tipo, il divieto di taglieggiare bottegai e viandanti, il divieto di allearsi ed associarsi.

Intorno alla metà del XVI secolo, nel momento di maggior fulgore delle Potenze fiorentine, anche nei borghi e nei villaggi più prossimi del Contado a ponente di Firenze, soggetti all’influsso delle usanze della capitale, si costituirono alcune Signorie Festeggianti, ad imitazione delle compagnie di sollazzo cittadine, molto simili a queste per atteggiamento, struttura gerarchica, organizzazione e cerimoniale.
Anch’esse erano sovvenzionate dalle facoltose famiglie locali e generalmente si attivavano nelle stesse occasioni in cui lo facevano le Potenze urbane.
Differivano da queste per la composizione più eterogenea dei propri membri (contadini ed artigiani d’ogni sorta), mentre le brigate cittadine erano principalmente formate da salariati d’una medesima Arte.

Sette furono le principali Potenze costituitesi nel Contado: Artimino, Brozzi, Calenzano, Campi, Carmignano, Poggio a Caiano e San Donnino.
Campi fu la prima Signoria contadina a formarsi e beneficiò sempre di una supremazia nella burlesca gerarchia che caratterizzava queste compagnie, tanto che nel 1533 le fu attribuito il titolo di Impero dal Duca Alessandro de’ Medici, il quale fece incoronare il suo Signore Piero di Biagio Bargioni da Mons. Angiolo Marzi, vescovo d’Assisi e suo segretario, e gli conferì il potere di concedere titoli e corone a tutto il territorio del Contado, sottoposto alla giurisdizione imperiale.

Lapide sulla facciata di Santa Lucia al Prato

L’attribuzione della dignità imperiale alla Signoria di Campi causò un conflitto con l’Imperatore del Prato, capo supremo delle Signorie cittadine, che ne contestò l’autorità, inviando un’indignata missiva al Duca Cosimo I, infruttuosamente. I Capitani di Parte, cui il principe aveva demandato la decisione, confermarono infatti entrambe le cariche imperiali e le due distinte giurisdizioni territoriali: la città per il Prato, il Contado per Campi. Mentre però l’Imperatore del Prato poteva muoversi liberamente per la città, il Signore di Campi volendo transitare per il territorio di un’altra Potenza doveva domandare il passo il giorno prima.

Attorno al 1517 si formò la Signoria di Calenzano con il grado di Ducato, innalzato poi a Reame nel 1577. In quell’anno anche la Potenza di San Donnino, costituitasi ufficialmente nel 1533 con la corona ducale, fu accresciuta in dignità con l’appellativo di Regno.
In quello stesso anno fu elevato al grado regale il Signore di Brozzi, che quindi da quel momento si è potuto fregiare della denominazione di Re di Brozzi.
Il Poggio a Caiano ottenne la dignità regale nel 1559 dall’Imperatore di Campi, che su richiesta del Granduca Cosimo I lo incoronò nella locale villa medicea attribuendogli l'impegnativo appellativo di Re di Toscana. La cosa turbò non poco il Signore della vicina Carmignano, che, ritenendosi superiore a quello del Poggio, usurpò arrogantemente il titolo imperiale. L’Imperatore di Campi reagì scrivendo una supplica al Granduca, il quale sottopose la vertenza al Magistrato dei Capitani di parte Guelfa, che nel 1577 (anche allora la giustizia aveva tempi lunghi) confermò il grado di solo ed unico Imperatore del Contado al Signore di Campi ed attribuì però al Signore di Carmignano il diritto di potersi fregiare del titolo di Gran Monarca.

In occasione del passaggio dal Contado di un sovrano o di un alto dignitario di un paese straniero, le Potenze che avevano residenza nei borghi posti lungo il suo percorso lo onoravano con magnificenti apparati scenografici ed archi trionfali allestiti nel tratto di strada ricadente sotto il rispettivo dominio e, impersonando con la massima serietà il proprio ruolo, ricevevano l'ospite assisi in trono su di un palco sormontato da un ricchissimo baldacchino, vestiti delle insegne ed uniformi regali e circondati dagli ufficiali di corte. Così avvenne nel 1535, al passaggio da Campi dell’Imperatore Carlo V.

Così come avveniva in città, frequentissime erano le dispute, le contese e le rivalità tra le Potenze del Contado, che spesso culminavano in brutali risse e violente sassaiole.
Ad esempio, nel 1577 l’Imperatore di Campi ricorse al Granduca pregandolo di denunciare ai Capitani di Parte, affinché li condannassero, gli uomini del Reame di Brozzi ed il loro Re, che avevano mancato di rendergli l’obbedienza dovuta in quanto suoi sudditi, dal medesimo elevati al rango regale, avendo trasgredito agli ordini imperiali e “avendo convitato a loro feste nimici dell’Imperio”.

Nel primo cantare de Il Malmantile Racquistato, l’eroicomico poema seicentesco di Lorenzo Lippi, viene ironicamente cantato l’aspetto di un‘improbabile compagnia militare brozzese, verosimilmente ispirata proprio alla locale Potenza: “Nanni Ruffa del Braccio, ed Alticardo / Conducon quei di Brozzi e di Quaracchi, / che, perché bevon quel lor vin gagliardo, / le strade allagan tutte co’ sornacchi. / Hanno a comune un lor vecchio stendardo, / da farne a’ corvi tanti spauracchi: / e dentro per impresa v’hanno posto / gli spiragli del dì di Ferragosto”. I soldatacci brozzesi vi sono rappresentati come bevitori di un pessimo vino, capace di far riempire le strade di sputi catarrosi, muniti, a mo’ di gonfalone, di uno straccio come quelli che si usavano nei campi per spaventare gli uccelli, sul quale sono rappresentati gli scampoli e gli avanzi delle allegre feste agostane che si tenevano a Firenze nella seconda metà del Cinquecento per onorare le vittorie militari di Montemurlo e Manciano.

All’inizio del XVII secolo, queste organizzazioni persero molta dell’influenza e della considerazione di cui avevano goduto nel Cinquecento, ed infine nel 1629 il Granduca Cosimo II, viste le violente rivalità che si erano create tra le più forti Potenze, il grande dispendio di denari e di tempo che richiedevano al popolo, ed il rischio che rappresentavano per l’ordine pubblico ed il potere granducale, ne dispose il definitivo scioglimento.
Delle Potenze cittadine non si hanno più tracce dopo il 1629, ma verosimilmente quelle del Contado, di nascita più tarda, ebbero vita più lunga e se ne può trovare un riflesso in quelle brigate ottocentesche denominate Bifolcate.